Sociologia dei processi economici e del lavoro

 

 

 

Sociologia dei processi economici e del lavoro

 

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Sociologia dei processi economici e del lavoro

 

Sociologia dei processi economici e del lavoro Lezione 1

 

La Sociologia Economica è quella disciplina che consiste nell’applicazione di paradigmi, variabili, modelli della S. al complesso di attività concernenti la produzione, la distribuzione, lo scambio ed il consumo di beni e servizi scarsi.

 

L’industrializzazione e la modernizzazione in Italia nel rapporto tra economia e società

 

Nel mezzo secolo che ci separa dalla seconda guerra mondiale sia l’economia sia la società italiana si sono profondamente trasformate. Il caso italiano può essere considerato una variante particolare del generale processo di crescita economica e di modernizzazione. Il caso Italia presenta, se confrontato con altri paesi, una serie di specificità che sono riconducibili al suo particolare “ Codice genetico”.

La sequenza è nota: rapido processo di indust.ne guidato dalle esportazioni di beni di consumo durevole e la successiva intensa crescita del mercato interno.

Tutto ciò è stato accompagnato da profonde trasformazioni sociali. Imponenti migrazioni di massa (dal nord-est verso il nord-ovest e dal centro-sud verso Roma e le città del triangolo industriale), il massiccio esodo dalle campagne e il progressivo declino della cultura contadina, la crescita disordinata delle grandi aree metropolitane con gravi carenze sociali, alloggi, trasporti, hanno dato origine a cambiamenti della struttura delle classi e dei ceti, declino della popolazione attiva, forte aumento degli operai.

Con tempi più lenti si sono verificate trasformazioni culturali di grande portata: secolarizzazione, formazione di una cultura nazionale unitaria mediante scuola e televisione.

Come avvenuto in altri paesi le aspettative crescenti, i disagi della modernizzazione, e le carenze delle istituzioni a far fronte ad una multiforme domanda sociale hanno alimentato ondate di conflitti sociali. La crescita dei grandi movimenti collettivi (operaio, studentesco, femminista, ecologista) ha provocato una serie di risposte istituzionali e cambiamenti legislativi nell’azione del governo (riforma agraria, politiche di welfare, riforma del diritto di famiglia, rafforzamento dei sindacati e dei partiti della sinistra, progressiva depolarizzazione ideologica.

Si sono manifestate nel caso italiano alcune specificità che creano particolari intersezioni tra economia e società. Le più significative sono:

Divario tra crescita economica e trasformazioni sociali da un lato e modernizzazione diseguale della pubblica amm.ne, del sistema giuridico, della cultura politica dall’altro

  • Persistenza di profonde differenze socioecomiche tra diverse aree del paese
  • L’intreccio assai stretto tra famiglia ed impresa
  • Diffusione del doppio lavoro
  • Crescita di un vasto settore pubblico dell’economia (4/5 del sistema bancario in mano allo stato)
  • Scarsa capacità della classe imprenditoriale
  • Tardiva introduzione dei valori legati alla competitività del mercato competitivo

Qual è l’approccio adottato dalla S. economica?

 

Per lo studio dei fenomeni sociali legati allo sviluppo industriale si parte dal riconoscimento dell’interdipendenza tra domanda ed offerta di lavoro focalizzando l’attenzione sui processi che contribuiscono a definire il tipo e la qualità dell’offerta e le immagini del lavoro percepite nelle diverse subculture di ceto, territoriali e generazionali oltre agli aspetti non economici del rapporto di lavoro (fiducia, senso di appartenenza).

 

Dimensioni del mercato del lavoro che si tenta di recuperare con la S. Economica

Vengono in tal modo recuperate sia la dimensione sociale che la dimensione territoriale del mercato del lavoro, inquadrando comportamenti ed atteggiamenti verso il lavoro nella rete di relazioni sociali, culturali e politiche di una società concreta.

Nel corso della lezione sono stati fatti 3 esempi di quali risvolti sociali presentino i seguenti fenomeni: l’occupazione femminile, la crescita dei rapporti di lavoro a tempo parziale,  la crescita del lavoro precario tra i giovani  

 

Correnti Storiche e problemi economici:

le più importanti formulazioni della relazione economia-società 

 

L’origine storica della riflessione su economia e società è strettamente legata alla nascita della società industriale e alle rivoluzioni democratiche condotte in larga parte dalla classe media.
L’interesse specifico nasce e si sviluppa nei pensatori sociali a seguito di 2 novità:

  • La crescente differenziazione delle strutture economiche e delle strutture sociali
  • Il problema dell’ordine sociale dovuto alle disuguaglianze, alle ingiustizie, alla disgregazione della vita comunitaria, all’instabilità sociale che le strutture economiche capitalistiche manifestavano

Adam Smith

 

L’economia politica di A.S. si basa sul postulato dell’ homo oeconomicus.
Si tratta di un insieme molto semplice di assunzioni sull’agire umano che viene visto come la risultante del comportamento di individui isolati ognuno dei quali persegue il proprio interesse e fa delle scelte libere e razionali dopo aver calcolato i costi ed i benefici presunti.
S. giunge a considerare l’equilibrio di mercato e l’ordine sociale un risultato spontaneo della massimizzazione del proprio profitto da parte dei singoli individui. Ciò era possibile perché S. dava una particolare soluzione al problema dei rapporti degli esseri umani con l’ambiente naturale e gli uni con gli altri: nel modo di soddisfare i propri bisogni e nella scelta dei mezzi per soddisfarli, gli uomini si comportavano da massimizzatori.

 

Critiche alla teoria di Smith

 

La prima semplificazione dell’economia classica (quella di A.S.) riguarda la psicologia umana: gli uomini vengono considerati dei materialisti capaci di agire razionalmente e massimizzanti. Inoltre l’azione collettiva era descritta come un aggregato di azioni individuali e gli aspetti non economici non erano presi in considerazione

Cambiamenti Sociali apportati dalla rivoluzione commerciale ed industriale

Furono indotte una serie di differenziazioni che produssero nuove istituzioni:

  • La famiglia moderna
  • La comunità urbana
  • Nuovi organi di controllo sociale (polizia)

I cambiamenti urbani ed industriali produssero tutta una gamma di nuovi problemi sociali

  • Criminalità
  • Droghe
  • Famiglie divise
  • Miseria

Il ritmo dei cambiamenti e l’instabilità portò alla distruzione o erosione di molte istituzioni integrative

  • Monarchia
  • Chiesa
  • Comunità locale
  • Corporazioni artigiane
  • Famiglia allargata di tipo contadino

K. Marx

 

Ciò a cui mirava non era nulla di meno di una nuova teoria della società. Egli prese spunto dalle intuizioni di Ricardo e le storicizzò.
Per M. le leggi in cui l’economia politica è inserita altro non sono che la successione delle fasi storiche in cui passa la società umana. Ogni fase è caratterizzata da modi di distribuzione e produzione e principi di funzionamento. Altra idea di M. era la rivoluzione riferita sia a meccanismi di transizione da una fase di sviluppo ad un’altra, sia allo scopo cui la sua stessa teoria doveva servire: “la distruzione rivoluzionaria del capitalismo”
In M. la concezione dei rapporti fra economia e società sta in parallelo alla distinzione fra le due coppie di concetti chiave della sua teoria:

  • Forze produttive – Rapporti sociali di produzione
  • Struttura – Sovrastruttura

L’enunciazione più semplice per la prima polarità è la seguente: “Nella produzione sociale della loro esistenza gli uomini entrano in relazioni necessarie, indipendenti dalla loro volontà che corrispondono a uno stadio dato dello sviluppo delle forze produttive”.

L’enunciazione più semplice per la seconda polarità è la seguente: “La base reale, ovvero strutturale, della società è il complesso delle forze produttive (macchine, lavoro, conoscenze tecniche) e delle forze sociali corrispondenti (diritti di proprietà, rapporti di classe). Su questa struttura riposa la sovrastruttura formata dalle istituzioni giuridiche, politiche e dalla cultura che è determinata dalle condizioni materiali della struttura e le esprime.

M. sostituisce quindi l’assunzione tipica degli economisti classici di una scelta libera e razionale con un postulato più deterministico: “le forze radicate nel modo di produzione si impongono agli individui.

La teoria marxista del cambiamento sociale ha le sue radici in una società mai statica. Il motore del cambiamento è dato dalle contraddizioni tra forze strutturali e sovrastrutturali. Il tipo fondamentale di contraddizione è la divisione del lavoro che genera disuguaglianze, asimmetrie di potere e conflitti di classe.
Il capitalismo, per M., somiglia a tutte le altre fasi storiche nel senso che contiene in se i germi della propria distruzione, ma in esso è particolarmente accelerato.
L’opera di M. ha un nucleo sociologico importante laddove identifica le classi sociali come il centro dinamico del cambiamento sociale.

 

Critiche

 

L’evoluzione delle società capitalistiche ha dimostrato che la formazione delle classi e dall’azione di classe, che dobbiamo a M. , è più complessa di quanto egli avesse previsto.
Il proletariato che egli conosceva è diventato più complesso grazie alla nascita di un esercito di lavoratori dei servizi, nonché agli ostacoli alla coscienza e all’azione di classe che hanno accompagnato questo sviluppo.
In alcuni casi strumenti che sarebbero considerati armi della lotta proletaria (sindacati, partiti e simili) hanno dimostrato di essere le basi di un’integrazionedei lavoratori nel sistema e di smorzare l’impulso rivoluzionario.
Diritto di voto, sicurezza, benessere hanno avuto un identico ruolo.

 

 


M. weber

Affinità con Marx

  1. Ampiò la visione dei rapporti fra economia e società rispetto ai classici
  2. Storicizzò anch’egli il capitalismo
  3. Considerò non fisse le relazioni tra forze economiche e sociali

Differenze da M.

  1. Selezionò solo certi aspetti del capitalismo e verificò relazioni fra essi attraverso confronti con società non capitalistiche
  2. Fu più attento alla genesi del capitalismo che al funzionamento (profitto, accumulazione ecc)
  3. In ultimo W. Rovescia le tesi di M. prende gli stessi fenomeni (lavoro salariato e formazione del profitto e gli analizza in termini di cultura e motivazione correlando entrambi i fenomeni ad un terzo quello della razionalità. Ciò ci aiuta a spiegare la formazione della classe operaia e l’accumulazione del capitale

In pratica W. Non respinge completamente il materialismo storico di M. e i conflitti di classe ma osserva che gli interessi economici sono soltanto uno dei fattori presenti e coesistono per esempio con ideali e lotta per il dominio

 

Cos’è per W. il capitalismo moderno?
Un grande complesso di istituzioni interconnesse quali: economia di mercato – imprese con fini di profitto – lavoro libero e volontario – credito pubblico – borsa valori ecc. ecc. Ognuna di esse ha una sua storia e relazioni con le altre. Tuttavia per W. Questo complesso di ist. È tenuto insieme da una  mentalità comune lo spirito capitalistico legato all’etica protestante.


 

Joseph Schumpeter

Si muove all’interno dello schema classico. Usa categorie ed intuizioni prese dalla sociologia ma anche dalla scienza politica e dalla psicologia. E’ a metà strada tra M. e W. Ed è convinto di poter sviluppare una teoria generale e sistematica ma non tenta, come M. di creare una teoria evolutiva generale dell’economia.

Il compito dell’analisi economica è quello di studiare i comportamenti dell’uomo in una data epoca e quali effetti questi comportano. Quello della sociologia è studiare il perché essi si comportano in un determinato modo.

Elemento chiave della sua teoria è la figura dell’imprenditore. Questi combina le risorse esistenti in modo nuovo, modifica le condizioni di approvvigionamento, da caratteristiche nuove alla produzione. La sua natura è RIVOLUZIONARIA.
L’I. per S. ha un certo tipo di personalità e di condotta che si differenzia dalla condotta razionale dell’uomo economico. E’ un capo che sa osare. Ciò lo distingue dal dirigente. E’ capace di pensare il nuovo………………..lo paragona ai capi militari e religiosi del passato pur essendo meno eroico.
L’I. sfrutta componenti del suo ambiente, denaro scienza, libertà individuale che hanno una base razionale ma in lui c’è anche dell’altro: la creatività

Per risolvere il problema del rapporto fra Imprenditorialità e classi sociali S. elabora una concezione veramente unica di stratificazione sociale. Per S. la struttura di classe è data dall’ordinamento gerarchico delle famiglie. Gli individui appartengono ad una classe indipendentemente dalla loro volontà. Cosa spiega allora la mobilità delle famiglie entro le classi? E’ la capacità di adattarsi ai bisogni determinati dall’ambiente sociale in una certa epoca e di manifestare le doti necessarie per un ruolo di leadership.

Elemento fondamentale delle classi  è l’esecuzione di funzioni socialmente importanti che generano prestigio sociale e consolidano la stratificazione sociale. Inoltre il sistema del prestigio, una volta costituito, acquisisce una vita propria. Le classi superiori della società e le loro famiglie più eminenti si consolidano attraverso legami solidaristici fra i loro membri e trasmettono privilegi sociali da una generazione ad un’altra.
La borghesia è classe dirigente perché i suoi membri hanno un passato di innovazione e guida dell’economia e perché acquisiscono potere, prestigio, ricchezza e li trasferiscono a generazioni future. Ma questo spiega anche la crisi della B. quando la funzione imprenditoriale tende ad appannarsi e si indeboliscono istituzioni borghesi come proprietà privata e contratto.

La crisi del capitalismo si basa soprattutto su considerazioni non economiche pur riconoscendo l’importanza di fenomeni quali le grandi compagnie che uccidono la concorrenza, il capitalismo monopolistico o la grande depressione degli anni 30.
In primis lo sviluppo dei monopoli, la concentrazione di capitali, la formazione di aziende gigantesche erode la proprietà privata indebolendo il ruolo dell’imprenditore innovativo. Secondo il tardo capitalismo genera una crisi sociale profonda che comporta la decadenza della famiglia borghese, la distruzione degli strati protettivi intermedi ed un deterioramento del clima sociale.

Gli intellettuali, nel capitalismo maturo svolgono un ruolo chiave nello screditare i valori e le istituzioni del capitalismo stesso. Il capitalismo tende a nutrire il malcontento sociale perché fa balenare la speranza di crescita e di miglioramento e contemporaneamente genera un alto livello di insicurezza personale


Karl Polany

La sua tesi è che l’economia è annidata nel contesto sociale generale. La relazione fra economia e società varia nel tempo ma in linea generale la seconda ha priorità sulla prima e la controlla. L’economia è immersa nelle relazioni sociali e gli agenti economici agiscono non tanto per interessi materiali, quanto per garantirsi posizioni, ambizioni e vantaggi sociali.

Secondo P. il capitalismo moderno è eccezionale perché in esso l’economia è meno subordinata alle relazioni sociali. Mercato e capitalismo industriale sono il risultato di un processo attraversao il quale l’economia si è liberata dal controllo della società ed ha subordinato alle proprie necessità tutti gli altri aspetti della vita sociale.

i 3 problemi oggetto di studio del suo libro + importante: La grande trasformazione sono:

  • Economia di mercato e sue contraddizioni
  • Mercato autoregolativo
  • Limiti della teoria economica classica

E vengono affrontati nel suo libro + importante: La grande trasformazione

  • Le contraddizioni del mercato sono dovute, secondo P. al doppio movimento prodotto dal tentativo di controllare gli intrattabili conflitti fra economia di mercato e società e di rendere possibile la coesistenza del libero mercato attraverso il controllo dello scambio di lavoro, capitale e risorse naturali.

P. verificò questa tesi con materiali storici tratti dall’epoca della rivoluzione industriale in G.B. Non analizzò soltanto le forze sul mercato ma anche le diverse politiche sociali come legislazione sociale, del lavoro, strategie sindacali e attività bancarie. Infine inserì un problema più strettamente sociologico ovvero la salvaguardia di un grado accettabile di solidarietà sociale in una società individualista dominata da valori utilitaristici.

  • Il mercato autoregolativo era il grande meccanismo istituzionalizzato di regolazione economica del capitalismo ma non poteva sopravvivere a lungo senza distruggere fisicamente l’umanità e trasformare l’ambiente in un deserto.L’economia una volta strutturata sulla base del mercato autor. Si separa dalle istituzioni sociali e costringe il resto della società a funzionare secondo le sue leggi

i 2 aspetti distintivi della vita economica secondo P. sono:

  • L’aspetto SOSTANZIALE che definisce le relazioni istituzionalizzate fra gli uomini e il loro ambiente naturale e sociale e mira al soddisfacimento dei bisogni umani
  • L’aspetto FORMALE basato sulle nozioni di scelta fra alternative e scarsità di mezzi oltre all’idea di relazione logica tra mezzi e fini.

La FALLACIA ECONOMICISTA secondo P. consiste nello scambiare il secondo aspetto per l’intera vita economica. La F.E. è nata nel 18° secolo con le relazioni fra domanda ed offerta che gli economisti considerano erroneamente naturali ed universali. Oltre a ciò le leggi costruite dagli economisti non sono leggi umane perché non tengono conto del contesto umano dell’attività economica.

L’attività economica è un costante spostamento di uomini,mezzi, materiali e conoscenze tecniche entro la società. P. quindi si chiedeva chi governa il flusso dei beni economici dentro la società. Sulla base delle proprie conoscente antropologiche P. formulò tre principi di integrazione economica.

  • reciprocità: transazioni fra gruppi simmetrici (scambio di doni)
  • ridistribuzione: transazioni da e verso un centro (Distribuzioni di viveri organizzate amministrativamente - filantropia
  • scambio: riferito a transazioni in un sistema  di mercato (compravendita)

 


Talcott Parsone e Neil Smelser

Il loro intento è quello di definire le principali esigenze della società, catalogare i sottosistemi destinati a soddisfare queste esigenze e identificare le relazioni tra essi. I rapporti tra economia e società devono essere definiti in tale contesto.
L’idea centrale di P. e S. è che l’economia è solo uno tra i vari sottosistemi sociali coi quali ha relazioni ed interdipendenza specifiche.
Quali sono quindi questi sottosistemi?

  • Conservazione latente del modello e gestione latente del sistema (L). Ovvero l’insieme dei valori e delle credenze che fungono da strumenti di legittimazione e sostegno per le sue principali istituzioni (Religione, scienza, famiglia, scuola).
  • Conseguimento dei fini (F). Questa funzione ha a che fare con i modi in cui la società stabilisce dei fini specifici, legittimati dai valori dominanti e mobilita la popolazione per raggiungerli
  • Adattamento (A). I fini, legittimati e istituzionalizzati (es. guerra, produttività economica) non si realizzano automaticamente, la società deve dedicare parte delle sue energie a creare dei servizi. L’economia si struttura intorno a questa funzione di adattamento.
  • Integrazione (I). Tutta la vita sociale comporta numerosi conflitti individuali e di gruppo. Un certo livello delle sue istituzioni è quindi dedicato alla gestione di questi conflitti e alla promozione della solidarietà sociale

 

La relazione più importante fra sottosistemi della società è quella di scambio.
Gli altri sottosistemi generano le principali risorse (fattori di produzione).
Esempio: Lo scambio fra il sistema di latenza “famiglia” e l’economia è uno scambio fra lavoro motivato, beni di consumo e servizi utili al sostentamento economico della famiglia e del suo stile di vita. Il mezzo che media questo scambio è il denaro che assume la forma di pagamento di un salario e di prezzo per acquisire i beni.

Seconda relazione è quella per cui gli altri sottosistemi determinano in larga misura il valore dei parametri dell’attività economica. Esempio per P. e S. i gusti non sono individuali, dati ma vengono plasmati dalle interazioni all’interno della comunità e strutturati a secondo delle esigenze degli altri sottosistemi.

Terza relazione sostiene che le forze non economiche strutturano lo scambio economico attraverso l’istituzionalizzazione di sistemi normativi quali: contratto, legge, proprietà. Si inseriscono in questo modo fattori non economici negli scambi di mercato.

In ultimo P. e S. elaborano una teoria della crescita economica costituendo un modello di cambiamento economico nel quale la pressione combinata di valori culturali e forze ambientali producono insoddisfazione verso le forze economiche esistenti 


Sociologia dei processi economici e del lavoro Lezione 2

Cos’è l’industria? E’ quel particolare settore dell’economia che produce beni materiali con l’impiego di macchine che estraggono, lavorano trasformano materie prime e semilavorati che sono concentrati in unità produttive dette fabbriche, stabilimenti, officine, industrie dove lavoratori e tecnici le governano e ne integrano l’opera col proprio lavoro fisico ed intellettuale nel quadro di norme e procedure che ne organizzano l’attività –Gallino-
L’I. ha fondato un nuovo tipo di società, la novità è nel nuovo tipo di rapporto sociale che essa instaura. Prima di allora c’erano botteghe artigiane e manifatture dove si lavorava non soltanto a mano ma con l’ausilio di macchine rudimentali.
Che cosa è cambiato dunque? Una spiegazione ci viene da Marx con la fondazione del “rapporto di produzione capitalistico” che si instaura fra due soggetti liberi, uno di impiegare il proprio capitale a rischio e l’altro di vendere la propria forza lavoro a tempo. Vi è il passaggio da attività lavorative servili ad un lavoro libero. Questo edifica un nuovo ordine sociale. Il rapporto sociale dominante del nostro tempo è quello del lavoro salariato. Quest’ultimo soppianta le due forme preesistenti: forma servile – forma artigiana.
Nella forma salariata il lavoratore non possiede i mezzi per produrre e produce per il padrone ma è libero.
L’unione tra capitale e lavoro (Marx lo definisce: modo capitalistico del produrre) è il cuore del capitalismo industriale così come il sistema di fabbrica è il mondo dell’industria; ecco l’immagine del MONDO DELLA PRODUZIONE.

Quali sono le valenze sociologiche che presenta la coppia capitale-lavoro? E’ come se l’avvento dell’industria avesse portato ad una semplificazione della struttura sociale. Da una parte i capitalisti e dall’altra gli operai oggi definiti imprenditori e lavoratori.
Così non è! Capitale e lavoro fondano classi nuove (capitalistica ed operaia) inoltre la coppia profitto-salario rappresenta l’essenza dei conflitti di interesse.
L’I. inoltre ha prodotto livelli mai visti di cooperazione e tensione. Non vi era mai stato luogo dove i ruoli dei soggetti si fossero trovati così vincolati da una convenienza strettissima e da una belligeranza permanente.

 

Società Industriale

 

Il padre della società industriale è Saint Simon che nel 1817-18 vedeva in essa la fonte di ogni ricchezza e prosperità.
Oggi la centralità e la visibilità dell’I. sta diminuendo. La nuova architettura industriale progetta edifici che non sembrano più fabbriche mentre gli stabilimenti di ieri stanno diventando pezzi archeologici. Perché? Nel 1940 l’economista inglese Colin Clark aveva notato che in ogni paese la percentuale di occupati fra agricoltura, industria, servizi è diversa e i paesi più ricchi hanno meno occupati in agricoltura. Se ne dedusse la tendenza dei sistemi produttivi a spostare la forza lavoro dall’uno all’altro dei 3 settori che chiamo: primario, secondario, terziario. Era quindi prevedibile che la crescita industriale elevasse i redditi che a loro volta avrebbero incrementato la domanda di prodotti con il conseguente sviluppo del terziario verso il quale si sarebbero spostati gli impieghi. Ma l’industria è ancora ben presente in tutta la società lo dimostrano alcuni modi di dire: “ Industria del turismo, I. della salute ecc.)

 

Fattori dello sviluppo industriale

 

Le varie invenzioni trasformarono la manifattura del cotone in G.B. e diedero origine ad un nuovo modo di produzione: Il sistema fabbrica.
Per realizzare simili progetti occorre una combinazione di circostanze tali da dimostrare non solo l’opportunità ma anche la superiorità dei nuovi modi di produrre. Gli industriali avevano bisogno di constatare che la dinamica del processo innescato con le nuove fabbriche era talmente sostenuto da rendere conveniente cambiare i modi ed i metodi di produzione precedenti e che quelli nuovi mostravano una redditività talmente superiore da giustificare il cambiamento.
Di lì in poi una quota di investimenti si spostò dai settori tradizionali verso l’industria e lo spostamento proseguì anche dopo che le innovazioni avevano accresciuto la redditività.

 

Tenore di vita

 

Dopo il 1820-21 il tenore di vita della popolazione cominciò a migliorare per 2 motivi: migliore alimentazione dovuta a legumi e grano russo e abitazioni più confortevoli grazie all’uso dei mattoni. Il sorgere delle città industriali comportò la necessità di rifornimenti illimitati di alimenti e materie prime, il potere di acquisto dei salari diventò più alto.
Ma è possibile che in un periodo di sfruttamento durissimo come quello del primo capitalismo, le condizioni di vita della popolazione potessero migliorare? Il lavoratore agricolo, in condizione quasi servile, era stato spinto ad emigrare in città dalle lusinghe di valori più alti e dalle condizioni migliori di vita urbana. Associandosi alla classe media tradizionale aveva qualche possibilità in più di acquisire un tenore di vita cittadino. Percependo una paga in moneta si offrivano ad esso possibilità di acquisto mai esistite fra le classi inferiori.
Ma proprio questo temevano gli economisti classici ovvero che i vantaggi venissero vanificati perché la lievitazione dei redditi avrebbe spinto la gente a fare più figli e l’aumento della natalità avrebbe erosa la produttività (Malthus).

 

Perchè sbagliavano gli economisti classici

 

Essi non tenevano conto di due nuovi fattori: la dinamica dell’occupazione e l’economia delle famiglie operaie. Classici esempi la creazione, all’interno della famiglia di un bilancio domestico da gestire per provvedere al futuro ed alle incertezze – l’offerta di lavoro ai minori.
Ma le novità maggiori stavano nelle scelte consapevoli verso la natalità e la nuzialità oltre ad un calo della mortalità dovuta all’aumentato reddito.
Inoltre gli economisti classici non potevano immaginare che la produzione lavorativa sarebbe riuscita a sostenere il fabbisogno di beni derivante dall’aumento della popolazione.
Dopo non molto tempo si cessò di discutere di sovrappopolazione e più avanti si cominciò a temere la sovrapproduzione di beni non smerciabili per la ristrettezza del mercato e inadeguato potere di acquisto dei consumatori.

 

Elite industrializzanti

 

Tutti i popoli del mondo sono in marcia verso l’industrializzazione. Quello che ci si può chiedere è: chi dirigerà il processo e quale tipo di “elite” ne sarà alla testa? Si parla pertanto di Elite Industriali.

  • Elite dinastica: proviene dai ceti più elevati e si limita a controllare il processo di industrializzazione.
  • La classe media: sorge ex novo. Si affaccia alla scena con il mercato, come esportatrice dell’industria
  • Intellettuali rivoluzionari: i più tipici sono quelli che avevano creato l’U.R.S.S.
  • Amministratori coloniali: è questa l’elite che aveva esportato in India il modello Britannico.
  • Leader nazionalisti: sono coloro i quali promuovono l’industria sulla base della riscossa emotiva di una società molto rigida (es. lIran).

Al contrario gli economisti individuano fasi piuttosto che soggetti. Essi ritengono cruciali le precondizioni che assicurano il “take off” (decollo) ma una volta che queste si sono verificate il processo di industrializzazione è assicurato fino al periodo del grande consumo di massa.


Pilastri portanti del capitalismo di massa – Tempo e Mercato

 

Tempo e mercato, su di essi viene fondato quello che Marx chiama sistema di fabbrica. Entrambi sono una costruzione della società capitalistica 

Tempo

La spinta a perfezionare gli orologi viene anche da necessità come quelle legate alla navigazione, fiore all’occhiello della Gran Bretagna al tempo della rivoluzione industriale. Ma la quest’ultima incrementò le tecniche di misurazione del tempo così come i modi di renderlo produttivo.
Gli orologi divennero sempre più piccoli fin ad essere tascabil. Sapere l’ora diventa segno di distinzione sociale (dato il prezzo degli orologi). Ma il tempo oltre che misurato con precisione doveva essere interiorizzato. Le abitudini di vita dovevano essere disciplinate secondo i ritmi dell’industria. Quali sono quindi le fasi costitutive del tempo moderno?

  1. Costruzione. Presso le società dove erano o sono in corso processi di industrializzazione vengono imposte scansioni aggressive: sveglia, lavoro, ritorno a casa tutto al fischio della sirena. Il tempo disciplina il lavoro. La pendola della timbratura rileva la presenza e giudica la puntualità. Il lavoro viene sincronizzato, si impara ad impiegare bene il proprio tempo, senza vuoti, con un ritmo regolare che un tempo si ottenava col canto. La cronologia della società si fa più rigida, la durata stessa della settimana viene ancorata a quella degli orari di fabbrica. Il sistema di lavoro a turni allunga la giornata artificialmente. Tutti imparano a rispettare orari e risparmiare tempo.
  2. Contestazione. Queste novità suscitano reazioni aperte fra il proletariato ma anche ripercussioni su ceti contadini e borghesi. Si mettono in moto meccanismi di difesa sociale ed individuale contro il tempo dell’industria. La contestazione assumerà il carattere di rivendicazione. Nel 1880 in G.B. viene raggiunto l’obbiettivo storico di suddividere la giornata in tre parti: 8 ore di lavoro, 8 ore di riposo, 8 ore di vita. Vengono inoltre richiesti turni e orari più umani per donne e bambini.
  3. La vivisezione. Sul finire del secolo (1800) si comincia a razionalizzare l’uso del tempo. Nascono i cottimi, incentivi salariali che fanno dipendere la paga dalla produzione industriale. Per rendere il lavoro più produttivo si comincia a misurare i movimenti di operai ed operaie. E’ notevole la resistenza operaia al “piece work” (tanto al pezzo) introdotta dai cottimi e le Organizzazioni Sindacali dei lavoratori si rendono conto che occorre che occorre contrattare i tempi. Si tratta di negoziare i tempi di lavorazione anche se gli imprenditori sono riluttanti a fornire le informazioni necessarie affermando che si tratta di segreto industriale.
  4. La fruizione. Fase che si sviluppa dopo la 2 guerra mondiale allorché si assiste ad un orario più corto ed una retribuzione più alta. Siccome ha più soldi e più tempo, l’operaio viene considerato dall’imprenditore un consumatore. Si inizia parlare di tempo libero e si affacciano i primi consumi collettivi e di massa. Nel 1962 i metalmeccanici italiani conquistano la settimana corta. Alcuni intellettuali parlano di imborghesimento della classe operaia visto che il week end è un privilegio di classe.
  5. Il redesign. E’ l’epoca attuale in cui si affaccia la possibilità di ridefinire il tempo sociale e di riappropriarsi del tempo individuale. L’industria ha enormemente sviluppato i servizi. Oggi è diventato essenziale de-sincronizzare le attività collettive (si pensi alla congestione urbana oppure le ferie). Le proposte per ovviare a questi sincronismi sociali potrebbero essere quelle che si ispirano ad una società permanentemente attiva.

 

Il mercato

Alla stregua del tempo è anch’esso un pilastro del modo capitalistico di produrre. Esso può essere un luogo (fiera di paese, mercato del pesce) o un non luogo (mercato europeo, mercato del lavoro). E’ anche una istituzione reale: costituisce sia un ambito che un regolatore di comportamenti. Mediante il M. si realizza un libero scambio di merci e valori. Sul M. agiscono soggetti che domandano e offrono beni e servizi, mercanteggiando, i contraenti discutono le condizioni della trattazione fino a quando si arriva all’accordo su termini convenienti.
Il negoziato si concentra  sul prezzo che è il corrispettivo monetario del valore o utilità attribuita a quel bene o servizio. Il prezzo tende a salire quando la domanda supera l’offerta e a scendere per il motivo opposto. Una merce può essere considerata poco utile pur avendo richiesto molto lavoro e materiale oppure molto utile pur avendo richiesto poco lavoro e poco materiale (pensate ad un letto in ferro battuto ed una granita offerti su una spiaggia nel mese di agosto). Di conseguenza valore  di scambio e valore d’uso non sempre coincidono.
Le motivazioni che spingono i partners ad incontrarsi per dare vita allo scambio possono essere così riassunti: carenza e bisogno espressi nella domanda oppure eccedenza o disponibilità che sono espresse dall’offerta.
Il punto di equilibri tra le due motivazioni viene descritto dalla scienza economica nei termini (improbabili) di concorrenza perfetta o condizione monopolistica od oligopolistica.
Quadsi tutte le transazioni si svolgono mediante danaro quindi lo scambio di mercato prende il posto del baratto in natura, praticato in passato. All’economia naturale subentra un’economia monetaria che si basa su rapporti di interesse regolati da un patto o contratto. Le norme che liberalizzano gli scambi come quelle che li vincolano vengono via via a costituire un corpus di istituzioni che tanto più si affermano tanto più il mercato si allontana dai luoghi dove tradizionalmente si contratta.


Oltre ad essere un luogo ed una istituzione cos’è il mercato?

Il m. è anche un sistema di valori, un paradigma per l’azione. Si pensi ai molteplici significati del termine (avere mercato, stare sul mercato, andare fuori mercato). Nel linguaggio commerciale un articolo vale solo se è “marketable” cioè vendibile. Con i termini di servizi vendibili e non vendibili si designano il ramo privato ed il ramo publlico del settore terziario.
Si usa dire: decide il mercato e partendo da questo spunto qualcuno è convinto che nei paesi dell’est il socialismo sia uscito sconfitto perché aveva rifiutato il mercato.

 

Costruzione sociale

Quello che oggi noi chiamiamo M. è dunque una costruzione sociale. La sua genesi è abbastanza recente e non è stata né spontanea né autonoma ma il risultato di un intervento, spesso violento da parte del governo. Polanyi non credeva al mercato che si regola da se. In questo quadro ha origine anche il mercato del lavoro. Quest’ultimo non esisterebbe senza proprietà privata e mezzi di produzione infatti, sorge nel pieno della rivoluzione I. e grazie all’intervento pubblico (1834). In questa data viene abolita in G.B. la legislazione dello “speenhamland” in vigore dal 1795 che disponeva che attraverso le parrocchie fosse assicurato agli indigenti un sussidio pubblico, modesto ma indicizzato. Senza questa decisione non sarebbe stato possibile realizzare una costrizione economica da spingere gli indigenti ad offrire volontariamente le proprie braccia all’ingrato lavoro di fabbrica. La distruzione quindi di una economia di sussidio e la costituzione di un’economia di mercato. Quell’ambiguo umanitarismo impediva ai lavoratori di costituirsi classe economica. Fu un urto brutale ma anche una liberazione. Classe operaia ed economia di mercato apparvero insieme nella storia. Estendere al lavoro le relazioni di mercato fu un assillo per molti studiosi i quali vedevano grossi rischi di mercificazione nella possibilità di comprare e vendere una cosa che la morale non considerava possibile di compra vendita.

 

Una merce Speciale

Si apre quindi l’epoca delle libertà di lavoro. Il salariato è adesso libero di vendere la propria forza lavoro, l’imprenditore a cui serve qualcuno che lavori alle proprie dipendenze domanda se ci sono disponibilità in giro e diventa datore di lavoro.
Gli imprenditori vorrebbero basare la paga sul prezzo delle merci necessarie al sostentamento del lavoratore = salario di sussistenza. Gli economisti hanno elaborato modelli dove la retribuzione risulta dal punto di incontro fra domanda ed offerta. Ciò determina il livello del salario di equilibrio.
Ma il mercato non basta a spiegare i livelli ed i dislivelli salariali. Il lavoro è una merce speciale, l’operaio è in possesso di una proprietà intangibile, non può vendere il proprio corpo ma solamente la promessa di obbedire agli ordini. Fra lavoro e capitale vi è un rapporto di libertà e soggezione reciproca. Il lavoratore è libero di andarsene e l’imprenditore viene danneggiato ma può anche accadere il contrario. Il lavoratore quindi, possiede soltanto la libertà di contrattare continuamente con il datore di lavoro per conservare quel posto ed è perciò sempre sul mercato del lavoro anche nel momento in cui lavora e produce

 


Sociologia dei processi economici e del lavoro Lezione 3
I valori fondativi

La valorizzazione del lavoro. Un ribaltamento. Il processo attraverso il quale è nata l’industria ha richiesto che il lavoro diventasse un impegno assiduo e che l’operosità diventasse un valore. Fin verso la fine del 700, infatti lavorare era considerato ignobile ed il lavoro agricolo era ancora servile. L’ industria ha fatto si che il lavoro venisse legittimato e perfino nobilitato (ricordiamo che il primo art. della Costituzione dichiara la Repubblica Italiana “fondata sul lavoro”).
Il pregiudizio sociale contro il lavoro aveva origini antiche radicate nella società schiavista e in quella feudale, aveva accomunato varie civiltà, da quella egizia a quella greca a quella romana. Le basi sociali del pregiudizio erano poi state perpetuate dalla religione attraverso la tradizione giudaico cristiana. Bibbia e vangelo consideravano il lavoro una pena, una condanna (“Mangerai il pane con il sudore della fronte” – Dice Dio nella Genesi). Dunque se il lavoro è pena e condonna allora l’operosità non può essere un valore.
Ma fu proprio la religione a trovare la strada per riscattare il lavoro. Due sono i passaggi che accordano un ruolo rilevante ad esso ed esattamente la Benedettina e quella Luterana.
Frate Benedetto da Norcia introduce l’audacissima equivalenza fra preghiera e lavoro. Nella vita quotidiana del convento si alternano così la lettura dei testi sacri ed il lavoro manuale nell’orto.
La rivalutazione del lavoro viene rilanciata con forza da un altro monaco: Martin Lutero che nel 1537 affigge sul portone del duomo di Wittemberg le sue 95 tesi in polemica con la chiesa di Roma che vendeva le indulgenze e indugiava in mollezze e corruzione.
Per la storia sociale, il caposaldo della riforma è certamente la fusione tra preghiera e lavoro enunciata nel 1536 da Jean Cauvin (Calvino).
Lavoro e preghiera vengono qui fusi non solamente accoppiati come nella regola benedettina. La riforma spinge l’uomo (il credente) ad essere homo faber artefice di se stesso. Da condanna universale il lavoro diventa riscatto individuale. Etica e morale del lavoro cominciano da qui.

 

Virtù Puritane

La riforma esalta l’industriosità non per scontare una pena ma per incassare un premio. Puntualità, sobrietà, disciplina erano le virtù puritane. Così il radicalismo religioso ed il radicalismo economico marciavano fianco a fianco nel disprezzo per i ceti aristocratici, visti come nullafacenti e spendaccioni. Calvino si appellò alla borghesia urbana contro il cattivo uso della ricchezza, non più contro la ricchezza cattiva. Gli uomini non diventarono capitalisti perché  protestanti, e neppure protestanti perché capitalisti. In una società che già stava diventando capitalista, il protestantesimo facilitò il trionfo dei nuovi valori.
Dunque è vero: una rivoluzione religiosa ha concorso a produrre il dovere di lavorare sodo senza sprecare il tempo, e a fare del lavoro un valore (la Chiesa Cattolica ci arriverà nel 1891 con l’enciclica Rerum Novarum di Leone XIIII).
Non fu facile abbattere il pregiudizio contro il lavoro che l’aristocratico nutriva da secoli nei confronti di ogni tipo di attività produttiva. Il pregiudizio cadde del tutto con la rivoluzione francese. In quel periodo comparvero satire ed invettive contro l’inoperosità dei ceti abbienti. Smith espresse tutto il disprezzo contro i ceti altolocati ed improduttivi addirittura contro i loro servi, lavoratori ritenuti anch’essi improduttivi. La valorizzazione del lavoro toccò il culmine con la teoria del valore lavoro la quale faceva appunto discendere l’intero valore aggiunto al prodotto (o plus valore) esclusivamente dal contenuto di lavoro e dalla forza produttiva del lavoro stesso.
Il processo apertosi tra la fine del 700 e gli inizi dell’800 mise in valore lo spirito dell’operosità e ne sottolineò la necessità economica e sociale.
L’operosità divenne una vera e propria “ideologia legittimante”. Gli industriali, del resto, avevano bisogno di un riconoscimento sociale mentre dovevano             – fare i conti con il ruolo insolito di guida della nazione –.
Fu anche per questo che la borghesia produttiva inglese si è distinta dagli altri ceti nel dibattito sulla povertà e sulla carità. Mentre l’aristocrazia sosteneva che i poveri sono pigri ed incapaci di virtù e che tocca pertanto agli abbienti provvedere, gli imprenditori sostenevano invece che la povertà sprona ad industriarsi, e che quindi occorreva dare lavoro ai poveri.

Il costume operaio

Per la società dell’industria occorreva qualcosa in più: un costume operaio all’altezza delle virtù puritane. Ma come inculcare la laboriosità in chi sgobbava per gli altri? Diffondere fra i lavoratori una operosità interiorizzata anziché imposta, questo era il problema; era difficile far diventare proletario e laico un valore borghese e religioso.
La morale operosa fu propagandata per mezzo di sermoni domenicali in chiesa, esempi edificanti sulle gazzette, fiabe dei cantastorie, massime popolari e infiniti proverbi (es. la cicala e la formica). Si insisteva inoltre su virtù più vicine al lavoro: puntualità, diligenza, prudenza ed obbedienza. Era consigliata la continenza contro gli eccessi sessuali, il decoro contro l’ebbrezza e lo scialo nelle osterie, luoghi di sovversione perché vi si poteva mormorare e complottare. Un’opera educativa viene inoltre dalle scuole serali e professionali.

 

Lavoro come riscatto

Il diffondersi della laboriosità fra ampi strati operai non sarebbe bastato tuttavia a far loro adottare un’etica del lavoro se non fosse intervenuto il movimento operaio; vale a dire le organizzazioni politiche e sindacali dei lavoratori. Con queste ultime si svilupparono gli ideali socio-politici secondo cui il lavoro non è soltanto un mezzo di sopravvivenza, ma anche di trasformazione, e chi lavora pertanto deve poter reclamare ed ottenere maggiore riconoscimento sociale (va ricordato che il motto di San Paolo: “Chi non lavora non mangi” è entrato pari pari nella costituzione sovietica nel 1918 per restarci fino alla riforma del 1989).
Così l’operosità diventava un valore anche per il proletariato che cercava una legittimazione sociale attraverso il lavoro, proprio come la borghesia. Ambedue si disputavano infatti il lavoro come un valore del quale ognuno si diceva portatore autentico.
Nel movimento operaio si era certi che un lavoro liberato dallo sfruttamento dei padroni sarebbe stato più produttivo di qualsiasi altro. Esso anzi era ritenuto più creativo, perfino più gioioso.
In questo modo il lavoro trascendeva la morale operosa diventando un’etica, perfino un’ideologia, ideologia laica, non più religiosa. A questo punto il costume operaio si separa dalle virtù puritane perché i proletari non cercavano la salvezza individuale bensì l’emancipazione universale.

 

La moralizzazione dell’interesse

Morale immorale. Il processo attraverso il quale è nata l’industria ha richiesto che, come per il lavoro, venisse anche ribaltata la posizione sociale dell’interesse, fino a farne una base culturale, sociale.
Anche l’interesse non godeva di buona fama, per rivalutarlo bisognava ammettere come lecito ciò che prima veniva riprovato o represso. Era come trasformare un vizio in virtù. Fino alla metà del 700 si riteneva che l’economia potesse essere morale, ciè assoggettabile ai processi divini. Da qui del resto era partito l’ostracismo verso l’usura, contro qualsiasi attività commerciale o transazione d’affari nella quale il fattore tempo giocasse un ruolo importante. Va qui ricordato che secondo i precetti teologici medioevali e la filosofia morale il tempo era di Dio, non lo si poteva monetizzare. Una causa della condanna religiosa contro l’usura era la diffusa presenza di ebrei in tutte le attività di tipo finanziario: soltanto un miscredente poteva arrischiarsi ad offendere il Dio dei Cristiani. Da allora il pregiudizio verso gli Ebrei.
L’elemento sociale aveva inoltre un peso non secondario sul giudizio morale. Si pensi ai guadagni fatti accaparrando derrate in tempi di abbondanza per rivenderle più care in tempi di carestia o penuria. Tuttavia non bastava predicare contro l’interesse: troppi preferivano il peccato alla virtù a costo di rischiare l’inferno.

 

L’Illuminismo Scozzese

Era necessario prendere atto con realismo della spinta al guadagno, ma non era facile. Il maggior contributo venne dai cosiddetti moralisti scozzesi (Adam Smith, Adam Ferguson, David Hume tra gli altri). Essi posero l’interesse come molla morale e politica. La loro scoperta fu folgorante: “bisognava riporre l’etica dentro gli interessi, in modo da piegarli ad un interesse sociale”. Un passaggio decisivo fu il pensiero di Hume che legittimò il lavoro e l’operosità come fonte della proprietà. In tal modo Hume legittimò manifatture e commercio come fonti di ricchezza.
L’interesse cominciava dunque a non essere più una cosa da eccentrici o devianti. Smith indicava la strada da percorrere incitando a non regolare ma piuttosto favorire la libertà di commercio ed incoraggiare il liberismo economico. A questa visione si contrapponeva quella di J.J.Rousseau tesa ad una economia morale, per i bisogni, per la repubblica.

Le due utopie Rousseau e Smith

Rousseau era l’utopia basata sul piccolo stato, sulla volontà generale, sulla forma cooperativa, sull’autarchia delle risorse, sulla semplicità dei costumi – niente lusso !!! – e sull’uguaglianza di rango. Un’utopia che metteva al bando le macchine.
Smith invece era l’utopia del mercato mondiale, l’insostituibilità della ricchezza, sulla crescita delle forze produttive, sulla divisione del lavoro, sull’impiego delle macchine, sulle innovazioni tecniche. L’elemento utopico risiedeva, in Smith, nel considerare “i ricchi guidati, nel loro operare, da una mano invisibile”. “Così facendo, senza volerlo e senza saperlo, fanno l’interesse della società e forniscono i mezzi per moltiplicare la specie”. L’utopia risiede appunto nel fatto che, secondo Smith, la disuguaglianza avrebbe dovuto produrre equità. L’idea posava sul paradosso che le pubbliche virtù riposassero su vizi privati.
Secondo Smith ed altri autori vi era la convinzione che il lusso aiutasse i poveri in quanto spronava l’invenzione, incrementava la produzione e dava lavoro, mentre un ideale di sobria uguaglianza avrebbe reso stagnante l’economia e la società stessa.

 

Caratteristiche dell’interesse

Spietatezza e grettezza da un lato, efficacia e successo dall’altro, dimostrarono che l’interesse poteva essere una passione vincente. Vincente perché razionalizzatrice: chi agisce in base all’interesse agisce infatti razionalmente.
Un comportamento interessato è un comportamento prevedibile. In questo senso offre certezze che lo rendono adatto a rapporti negoziali, cioè allo scambio di mercato. La teoria Smithiana della mano invisibile s ibasa appunto su questo postulato: se ognuno fa per se, tutti si comportano linearmente così come li spinge il naturale impulso umano.

Disciplinamento materiale ed abitudini di vita

L’uomo dell’industria. L’industrializzazione esercita una potente azione di disciplinamento delle abitudini di vita e di condizionamento degli abiti mentali.
E’ tipico dell’industria riconfigurare:

  • La materia prima umana
  • Di conseguenza distruggere i vecchi modi di vita e di lavoro
  • Per cui anche se alla fine la forza lavoro si è rivelata malleabile, la metamorfosi ha generalmente comportato rilevanti conflitti, tensioni e perfino violenze

Forte è il segno che l’industria lascia ovunque arriva. E’ logico che questo processo si riveli in tutta la sua portata quando si tratta di inculcare per la prima volta una naturale laboriosità presso molte persone in zone dove l’industria non ha radici, come avvenne in Europa ed in America nell’800 o in vari paesi dell’Asia.
Si pensi all’introduzione di una settimana lavorativa di 6 giorni della stessa durata. Ci vollero decenni per convincere i lavoratori ad accettare una settimana di lavoro regolare. Non si trattava di pigrizia ma di mancanza di abitudine. Nel 700 non si lavorava in genere più di 3 – 4 oreed i giorni lavorativi non erano più di 100 –150 all’anno. Dove l’industria si insedia, essa fa dunque cambiare le abitudini, e l’inesorabile disciplinamento comincia appunto dalle scansioni temporali. All’interiorizzazione dell’ordine industriale concorrono poi le norme disciplinari. I regolamenti di fabbrica elencano sanzioni per ritardi, assenze, scarti, guasti, spostamenti, sospensioni di attività, ubriachezza, insubordinazioni.
La costrizione più vistosa si esercita naturalmente attraverso i movimenti delle macchine, con il disciplinamento del gesto e del corpo. Le abitudini personali, naturali, vengono sconvolte perché in contrasto con quelle imposte meccanicamente. La divisione tecnica del lavoro, spezzetta tutte le operazioni per rendere via via più produttivo l’operaio. Frazionando, semplificando e specializzando il contenuto di ciascuna singola operazione la divisione del lavoro incrementava enormemente il rendimento operaio. Del lavoro industriale, così meccanizzato e frantumato, quel che si notava di più era ovviamente l’allontanarsi dal modello tradizionale dell’artigianato. D’altra parte, ovunque la produzione abbia un carattere minimamente ripetitivo, la divisione del lavoro richiede una reiterazione dei movimenti, che si lavori o no alle macchine. Dagli anni 50 si è cominciato a comprendere che la divisione del lavoro comporta un limite a partire dal quale i vantaggi diminuiscono. La ripartizione del lavoro ha lo scopo di produrre sempre più e sempre meglio con lo stesso sforzo. L’operaio che lavora sempre lo stesso pezzo acquista un’abilità, una padronanza e una precisione che accrescono il rendimento. Qualsiasi cambiamento di mansione comporta invece uno sforzo di adattamento che dimiusce il rendimento.

Come Lavorare

L’intervento dell’industria sulle abitudini di vita dei lavoratori non avviene soltanto in modo indiretto, attraverso macchinari, vi è anche un intervento diretto. Quello che sul finire dell’800 nota Taylor farà compiere un balzo alla storia del lavoro umano. Ogni operaio lavora a modo suo, ciascuno esegue i suoi compiti senza che nessuno gli dica come fare; al massimo il capo da qualche consiglio, ma anche i consigli sono personali.
Con Taylor inizia la fase dell’intervento diretto sulle abitudini di lavoro. Scomponendo ed analizzando il processo lavorativo, le operazioni ed i movimenti degli operai vengono misurati, ricomposti ed infine ridisegnati allo scopo di ridurre il tempo complessivo impiegato. Il fine è produttivo e non certo ergonomico.
Taylor andava ancora più in là asserendo che: “gli individui che passano la maggior parte delle loro ore regolando ogni loro movimento in base a leggi ben definite, assumono abitudini che inevitabilmente si ripercuotono non solo sulla loro vita familiare, ma anche sulle altre attività lavorative. Si può quindi essere sicuri che indirizzeranno il resto della loro vita sulla base di principi e di regole precise, cercando di allargarne l’uso a chi li circonda”. Ed ancora: “L’intera famiglia avverte l’effetto delle buone abitudini inculcate nel lavoratore durante il suo lavoro quotidiano per mezzo dell’organizzazione scientifica del lavoro”.
Con l’intervento diretto sulle abitudini di lavoro si aprì una fase di vere e proprie rivolte operaie (Renault 1912) e di studi sulla fatica e sullo stress (Inghilterra 1920 – Fatigue Board).

Condizionamento culturale ed abiti mentali

Rivoluzionando le abitudini di vita attraverso il lavoro, l’industria trasforma gli abiti mentali, si instaura un nesso fra modo di lavorare e di pensare. Era proprio questo che si temeva nei primi decenni dell’industrializzazione, le conseguenze sulle facoltà mentali degli operai addetti ad un lavoro meccanico.
Ci si ponevano interrogativi angosciosi sul rapporto fra industrializzazione e personalità. La sfida della rivoluzione industriale metteva in dubbio le certezze dell’Illuminismo, in particolare la fiducia nell’Uomo, nella Ragione e nella Scienza. Si temeva l’asservimento dell’uomo alla macchine si profilava un futuro di schiavitù.
Bisogna fare tot pezzi, di queste dimensioni, non un millimetro di più o di meno entro quella data ora o quella data scadenza. All’apparato di norme individuali si sommavano meccanismi di trascinamento collettivo. La standardizzazione dei prodotti e dei metodi completava il quadro. Un apparato produttivo che lavora quasi senza margini di errore e in modo uniforme e predeterminato su elevati volumi, un qualcosa di assolutamente quantificato e quantificabile.

L’ordine nuovo

Due grandi intellettuali italiani seppero trarre ispirazione dalla classe operaia torinese: P. Gobetti e A. Gramsci.
Il primo affermò che: “La fabbrica educa al senso della dipendenza e della coordinazione sociale ma non spegne le forze di ribellione, anzi le cementa in una volontà organica di libertà”.
Dal canto suo Gramsci giudicò il Fordismo come “il maggior sforzo mai verificatosi finora per creare un nuovo tipo di lavoratore uomo”.
Questi approcci rammentano quello sovietico dei primi anni 20 quando, dopo la Rivoluzione d’Ottobre, l’opera di edificazione dell’industria sviluppò una visione “buona” e alternativa delle macchine come della tecnologia. L’elite rivoluzionaria aveva bisogno di forti motivazioni simboliche per sostenere l’immane sforzo.   


Sociologia dei processi economici e del lavoro Lezione 4

Il modo di produzione

Produttività ed accumulazione. L’industria non è solo fabbrica: è quel peculiare modo di produrre e di consumare che K. Marx ha chiamato “il modo capitalistico di produzione”. L’occidente è diventato ricco proprio per l’impulso che questo modo di produzione ha dato alla fabbricazione di merci, alla creazione di profitti e alla distribuzione della ricchezza. Operando attraverso l’impresa quel modo di produrre e di consumare impronta di se tutta la società in cui viviamo. Esso realizza aspirazioni individuali e finalità collettive che lo distinguono nettamente da forme economiche del passato.
Il modo di produzione si compendia di 2 processi: produzione e valorizzazione. Il primo si vede quando si visita uno stabilimento industriale. Mediante mezzi tecnici e mano d’opera, materiali e materie vengono trasformate in merci, cioè beni vendibili.
Il processo di valorizzazione si osserva soltanto sui libri contabili. Da un determinato input (investimento) di risorse si ottiene come output un prodotto il cui valore di mercato supera quello dei mezzi impiegati per produrlo a prescindere dal prezzo a cui verrà venduto (che può essere anche minore nei casi di dumping: concorrenza sleale, vendita sottocosto per la conquista del mercato). La differenza che se ne trae è il surplus o sovrappiù, un risultato che corrisponde all’utile o al profitto.
Il modo di produzione capitalistico aggiunge valore al valore esistente in virtù di una inedita combinazione di risorse: il capitale e lavoro cooperano all’impresa ottimizzando l’uso dei fattori impiegati: da un lato i macchinari e le materie prime (appartenenti all’industriale capitalista) dall’altro la forza-lavoro (ceduta dai lavoratori salariati). Tale combinazione valorizza sia il capitale che il lavoro remunerandoli rispettivamente con il profitto ed il salario. Quel sovrappiù che Marx chiama plus-valore è un valore effettivamente aggiunto al costo delle componenti originariedel prodotto ma non ha nulla a che vedere con il margine commerciale (ricarico) che chi vende applica sul prezzo pagato al fabbricante.
“L’obbiettivo essenziale di una impresa è il conseguimento di utili non la pura costruzione di autovetture o altro prodotto o servizio”: in queste parole sta tutta la logica della ‘Mano Invisibile’ vale a dire di quella molla capace di operare la migliore distribuzione delle risorse ai fini della ricchezza. Smith era convinto che l’interesse privato favorisse il bene comune e che l’individualismo economico fosse provvidenziale. Gli illuministi scozzesi credevano che al benessere della società fossero più utili gli impulsi egoistici di quelli altruistici. Da qui una fede cieca nel mercato. A due secoli di distanza, la storia del capitalismo ha dimostrato che una ‘Mano Invisibile’ esiste ed è l’impresa industriale; la molla che non dipende quindi dai ricchi in quanto tali ma in quanto imprenditori.
Dunque è vero: il modo di produzione industrial-capitalistico è stato uno strumento potentissimo, che ha cambiato tenore e stili di vita.

Produrre Valore. La scoperta della formidabile capacità produttiva generata dall’industria attraverso la combinazione fra capitale e lavoro è alla base della rivalutazione definitiva del lavoro nella società moderna. Diverso era il peso e il ruolo stesso dell’economia agraria. Quella dei campi non era vista come un’attività produttiva nel senso odierno. E’ con l’industria che sorge la distinzione fra ciò che produce nuovo valore (industria) e ciò che riproduce soltanto il valore esistente (agricoltura). E ciò che produce valore è proprio il lavoro salariato, è soltanto questo tipo di lavoro che aggiunge valore e che da un sovrappiù.
Nasce una visione sociale nuova, la quale distingue non soltanto fra chi lavora e chi non lavora ma anche fra lavoro produttivo e improduttivo.
Solo il lavoro che produce capitale è lavoro produttivo. Lavoro produttivo è inoltre quello che crea un plusvalore, un valore nuovo oltre all’equivalente che esso (il lavoratore) riceve come salario.
Secondo Marx non tutti i lavoratori sono produttivi (chi suona il pianoforte non lo è al contrario di chi fabbrica pianoforti inoltre chi fa riparazioni a domicilio non è produttivo perché non scambia lavoro contro capitale ma contro reddito). Sebbene questa teoria fosse poco dimostrata e molto discussa fu adottata dai movimenti socialisti come base di una morale operosa. Per i proletari essere produttivi era un motivo di orgoglio come per gli imprenditori era l’essere operosi.
Non si deve però esagerare la capacità di traino che le forze produttive hanno avuto nella storia. Un giusto peso va infatti attribuito ai soggetti sociali e alle classi stesse per non parlare delle loro idee e culture.

Costo e volume. L’incessante tensione ad accrescere il volume dei prodotti e a diminuire i costi di produzione riassume questa caratteristica meglio di qualsiasi altro tratto. Presso nessuna forma economica del passato ci si era mai posti questo duplice imperativo: primo, fare in modo che la medesima produzione di ieri possa venire effettuata oggi a minor costo; secondo, fare in modo che oggi si possa produrre più di ieri, con gli stessi mezzi.
Questa forma mentis origina una tensione continua, quasi un’ossessione, alla quale dobbiamo i considerevoli progressi degli ultimi 2 secoli; ne lbene e nel male. Gli imperativi di ridurre il costo ed accrescere il volume alimentano la produttività e l’accumulazione.
La produttività cresce quando aumenta la resa nell’unità di tempo, e può essere misurata dal rapporto tra il numero dei pezzi prodotti ed il numero dei lavoratori impiegati a produrli.
L’accumulazione cresce quando si vende un maggiore volume di prodotti a costi minori e può essere misurata dalle quote di mercato cioè dal rapporto tra le vendite dell’azienda e le vendite totali.
Produttività e accumulazione dipendono dall’uso del lavoro; da quando quest’ultimo ha un prezzo il suo buon uso costituisce ovunque un fondamentale parametro di sana gestione.
Ridurre il costo del prodotto significa in pratica riempire la giornata di lavoro: come riuscirci?
Il capitalista deve sistematicamente tendere a ridurre la parte della giornata lavorativa necessaria alla riproduzione del salario onde poter accrescere l’altra parte, quella relativa alla produzione del sovrappiù. Le strade sono: a) rendere la giornata più lunga. b) renderla più densa.
Quando l’imprenditore può, cerca sempre di allungare la durata della giornata e di intensificare i ritmi per renderla più densa. Così è nato il lavoro a turni, si sono appesantiti i carichi di lavoro individuali incitando gli operai ad andare più in fretta allettandoli con paghe “tanto al pezzo” (piece-system - cottimi).
Nelle fabbriche lo sfruttamento era non soltanto duro ma anche capriccioso perché privo di criteri. I capitalisti avrebbero voluto che si lavorasse di più ma non sapevano quanto si potesse davvero lavorare. Non sapevano bene come avrebbero dovuto essere eseguite le operazioni richieste agli operai.
La svolta si deve all’ingegner F.W. Taylor, che negli anni 10 propose una “gestione scientifica” delle aziende, espressione tradotta poi con “organizzazione scientifica del lavoro”. Occorreva che le aziende studiassero ogni singola operazione da svolgere per capire quale era il miglior modo di operare onde eliminare i movimenti inutili. Poi si sarebbe insegnato ad ogni operaio come eseguire razionalmente il proprio lavoro. La novità di Taylor si rivelò rivoluzionaria. Dagli anni 20 in poi il lavoro è stato spremuto al massimo e al meglio, dato che la forza lavoro è una merce a tempo, e una volta comprata va fatta rendere.
Produrre di più in minor tempo: la produttività non può scendere, non deve mai tornare indietro; deve crescere persino nei momenti in cui è necessario diminuire la produzione perché la domanda non tira. Le aziende approfittano di queste crisi per far compiere un salto alla produttività.
Per accrescere il sovrappiù occorre inoltre aumentare la capacità di fabbricazione e di smercio fino a riempire il mercato di prodotti, in modo da accrescere l’accumulazione. L’imprenditore non può aspettare gli ordini dei clienti e deve comunque stabilire quanti esemplari produrre. Si avvarrà di stime di mercato, di previsioni sul target, ma dopo di ciò dovrà stabilire il “tot” giornaliero, prescindendo dalla domanda effettiva.
L’imprenditore deve produrre non meno di quanto stabilito onde fruire delle economie di scala derivanti dal rapporto fra dimensione dell’azienda e mercato potenziale; ma al tempo stesso deve tendere a produrre di più di quanto stabilito, altrimenti non fruirebbe di ulteriori economie e l’azienda non crescerebbe.
Ma come riempire il mercato di prodotti? La svolta viene negli anni 10? Ford pensò di ribassare i costi in due modi. Primo: portare il lavoro agli operai con un apparato detto “catena di montaggio”, che semplificava di molto le operazioni dando il tempo a tutta la maestranza. Secondo standardizzare il prodotto al punto di fabbricare un unico modello solido, affidabile e a bbuon mercato: il leggendario modello T.
L’imprenditore cerca anche di allargare gli sbocchi e le quote di mercato; a volte si coalizza con altri fabbricanti per monopolizzare le vendite, cerca di stimolare il consumo e tenta di influire sulle abitudini del consumatore mediante messaggi pubblicitari oltre ad allettare i gusti diversificando il prodotto; in ultimo inventa a volte prodotti che anticipano i bisogni o li creano.
L’epoca della produzione di massa ha portato con se il timore del consumismo cioè il dominio delle merci sui bisogni; produzione di bisogni fittizi.
Produrre e produrre, vendere per produrre, consumare per produrre. Qui stanno tutte le virtù ed i tanti vizi del mondo di produzione. Per questo il capitalismo è spreco ma anche benessere. Shumpeter parla di <<Distruzione Creatice>>.
La proprietà L’impresa è un organismo che viene tuttora assunto come l’emblema del capitalismo industriale e della proprietà privata.
Molte volte sopravvive all’imprenditore che l’aveva fondata, altre volte l’imprenditore ne crea più di una. Esistono imprese che appartengono a poche persone non imparentate e altre che sono, in parte o tutte dello Stato.
Vi sono inoltre imprese i cui titoli di proprietà sono così dispersi da rendere i proprietari irriconoscibili, o la cui proprietà attraverso partecipazioni incrociate, sta nelle mani di altre aziende, a volte situate in paesi diversi. La proprietà personale è diventata via via impersonale, appunto mediante la società anonima o per azioni, (la Corporation inglese).
Cosa è successo? La proprietà di tipo individuale o famigliare non garantiva più l’autonomia finanziaria e la gestione razionale alle imprese maggiori. Cresceva sia il fabbisogno di capitali che di competenze; bisognava quindi frazionare il rischio e professionalizzare la gestione. La proprietà si è diffusa e socializzata attraverso la figura dell’azionista. Se costui detiene pacchetti cospicui, resta in qualche modo proprietario anche quando il suo interesse è meramente finanziario. Dall’altro lato la proprietà ha delegato sempre più spesso le funzioni di direzione e di gestione a un apposito profilo professionale, che ha originato un ceto sociale vero e proprio in continua espansione: quello de i manager. Ma nella maggior parte delle imprese non vi è neppure più un vero proprietario; la continuità di gestione viene assicurata dal management quale unico riparo per l’integrità dell’impresa.
L’istituzione L’impresa industriale è anche un sistema di relazioni sociali. E’ lì, nella ditta che si formano le immagini del padrone, delle classi e della società. Divisione del lavoro e ordinamento gerarchico danno luogo nell’azienda a 2 tipi di relazioni intrecciate: a) di lavoro, ovvero orizzontali che hanno un carattere professionale e produttivo b) di dominio o verticali, che attengono l’autorità ed il potere. L’azienda è organizzata attraverso una separazione di compiti fra direzione ed esecuzione che sembra riprodurre la divaricazione originaria di classe, fra capitale e lavoro.
Nell’azienda coesistono quindi un sistema di dominio e una struttura di cooperazione.
L’azienda è anche costituita da una vera gerarchia di ceti: al vertice vi è l’imprenditore o il top management, poi il management, poi i quadri e i tecnici, gli impiegati, gli operai, gli ausiliari. Le distinzioni di status paiono a volte diluirsi ma i loro simboli restano persistenti, come quelli legati all’abbigliamento sul lavoro: colletti bianchi e colletti blu; tute, camici e giacche o giacchette nere.
L’impresa è una organizzazione ma è anche una istituzione e dispone pertanto di una propria costituzione sociale, quasi un sistema istituzionale. Nell’azienda vigono norme sancite dal contratto nazionale di lavoro e dal regolamento interno. Ambedue gli strumenti prevedono sanzioni per le varie infrazioni (ritardi, furti, indisciplina ecc. ecc) con pene graduali fino al licenziamento in tronco. Se l’azienda è grande vi sono dei guardiani muniti di porto d’armi, con funzioni di vigilanza. L’impresa intrattiene relazioni con le maestranze attraverso rappresentanze elette oppure nominate dai sindacati; appositi accordi stabiliscono come applicare o integrare, a livello aziendale, i trattamenti vigenti a livello nazionale.
L’impresa quindi come organizzazione e contemporaneamente istituzione. Inoltre, se l’impresa è grande, può essere altresì vista come una cultura. Questo spiega gli sforzi di presentare l’impresa non soltanto come un marchio, ma come un soggetto dotato di una propria storia e di una propria identità peculiare.
L’organizzazione Gli organigrammi mostrano delle griglie che sanciscono la distribuzione dell’autorità all’interno della direzione e fra la direzione e le maestranze.
Il primo a chiedersi come razionalizzare il lavoro della direzione aziendale, nei primi anni del 900 fu il francese H. Fayol.
Egli elencò 6 specifiche funzioni direzionali: tecnica, commerciale, finanziaria, contabile, di sicurezza e direttiva; dando così luogo ad un mix ottimale di caratteristiche e di capacità richieste al dirigente.
Ma il corpus di principi manageriali si deve all’inglese Urwick il quale prescrisse funzioni specifiche aggiuntive a quelle di Fayol: personale, marketing, pubblicità e approvvigionamenti. Con gli anni 30 gli organigrammi divennero più complicati e ripartiti su 3 maxi funzioni: Processo di progettazione, processo di fabbricazione, processo economico. Le decisioni sono distinte fra: strategiche, riservate al top-management (ubicazioni di nuovi impianti, prodotti da lanciare, volumi di produzione); amministrative, riservate alle direzioni; operative, riservate a tecnici e capi.
L’azienda industriale, come altre organizzazioni, si ispira a criteri di efficienza operativa. Le considerazioni di efficienza operativa devono regnare sovrane soltanto in aziende a scopo di lucro. E ciò differenzia l’azienda industriale dall’amministrazione pubblica.
Organizzazione del lavoro e taylor-fordismo l’assoluto bisogno di organizzare il lavoro è stato sentito soltanto in tempi molto recenti. Secoli di lavoro artigiano e manifatturiero non avevano prodotto nulla del genere. Perché allora nacque una organizzazione del lavoro legata ai nomi di Taylor e Ford e perché proprio in america?
Alla fine dell’800, nell’ambiente economico e sociale americano, emergevano una forte concentrazione industriale, una spinta a produzioni di serie, un afflusso di mano d’opera impreparata e una tenace opposizione padronale ai sindacati. Contemporaneamente il processo lavorativo si imparava quasi inconsciamente, osservando i compagni. Il problema stava nella profonda ignoranza dei datori di lavoro e dei loro dirigenti tecnici circa il tempo necessario per ciascun tipo di lavoro e inoltre vi era indifferenza ed ignoranza dei datori di lavoro riguardo al sistema più adatto di organizzazione da adottare. Il parametro di rendimento stava in mano ai lavoratori stessi.
Qui inizia la grande rivoluzione nell’atteggiamento mentale delle due parti, proposta da Taylor. Egli affermò che: “Ogni operaio deve abbandonare i suoi metodi personali di lavoro per abituarsi a ricevere e applicare le istruzioni riguardanti i dettagli, grandi e piccoli, che in passato erano lasciati al suo criterio”. Per fare ciò la direzione avrebbe dovuto accollarsi ed eseguire buona parte del lavoro che, fino ad allora, veniva eseguito dalle maestranze.
Tutto doveva essere fatto dalla direzione. Per organizzare il lavoro occorrevano persone diverse da quelle che poi lo avrebbero eseguito, ciò implica la ripartizione della responsabilità in misura uguale fra dirigenti e mano d’opera.
L’organizzazione scientifica del lavoro equivale ad un risparmio di lavoro al fine di rendere gli uomini più efficienti di quanto lo siano adesso, senza imporre loro fatiche maggiori incrementando la produttività anche di 3 – 4 volte.
A dettare il ritmo non era più la macchina ma il metodo.
Nelle fabbriche degli U.S.A. fra l’800 e 900, pochi avevano un mestiere, imparato sul posto di lavoro o portato con sé da oltre oceano. Vi erano delle ristrette aristocrazie operaie con compiti di fiducia e supervisione ma, la gran massa era composta da operai comuni. Non è pertanto vero che il taylorismo ha distrutto i mestieri artigianali ma ha sicuramente tolto potere all’operaio.
Ma come insegnare a lavorare scientificamente? Il meglio si ottiene sorvegliando un uomo che sta lavorando alla giusta velocità e registrando i suoi tempi. La forza del procedimento consisteva nella certezza, che fra tutti quelli utilizzati, esistono sempre un metodo ed una attrezzatura che permettono rapidità ed accuratezza di esecuzione superiore a tutti gli altri.
Taylor raccomandava che gli sforzi fossero concentrati su un singolo individuo; nessun ulteriore tentativo doveva essere compiuto finchè non si sia arrivati al successo completo con quel soggetto.
Il Fordismo Taylor era consapevole delle difficoltà. Chiedeva di attendere 2 o 3 anni prima di essere sicuri di ottenere buoni risultati anche perché temeva le resistenze di operai e sindacati (i suoi metodi stavano infatti provocando scioperi). Ma vi era ben altro: la rigida metodologia di Taylor era semplicemente utopica. Addestrare migliaia di operai uno ad uno, ad imparare un modo di lavorare estraneo e meccanico era arduo se non impossibile proprio a causa della prescrizione chiave: “Attenersi inflessibilmente alla norma di parlare e trattare con una sola persona alla volta”.
Taylor non risolse il problema di adattare grandi masse non qualificate. Lo risolse invece Ford partendo dal punto in cui Taylor era arrivato e andando oltre. Come? Dividendo e suddividendo le operazioni, tenendo il lavoro in movimento: queste furono le chiavi.
Il punto di svolta fu costituito dalla trasformazione delle operazioni di montaggio. Il primo passo fu fatto quando si cominciò a portare il lavoro agli operaie non gli operai al lavoro. La preoccupazione costante è: ridurre, in qualsiasi lavoro, il bisogno di abilità dell’operaio. Quest’ultimo impara in poche ore o pochi giorni e se non impara in questo termine, vuol dire che non se ne potrà ricavare nulla.
La differenza rispetto a Taylor è dunque nettissima, non c’è in Ford l’illusione di insegnare all’operaio l’unico modo migliore di fare il proprio lavoro, bensì la fortissima volontà di disporre le cose in modo tale che possa soltanto lavorare al meglio.
Ford inoltre, senza mai negoziare nulla coi sindacati, avvia un sistema salariale che garantisce un minimo di 5 dollari al giorno, il 15% in più delle paghe correnti, ed una giornata ridotta da 9 a 8 ore, oltre ad una settimana di 48 ore.
Nel 1913 a Detroit venne quindi avviata la prima catena di montaggio. Anziché andare alla conquista degli operai, come avrebbe voluto Taylor, Ford li sottoponeva ad una silenziosa, inesorabile violenza meccanica. Ciò era possibile perché era un imprenditore e poteva adottare decisioni strategiche. Ford, da imprenditore, fece quello che Taylor da tecnico non poteva fare: “puntare sulla massa”. Ford era solito dire: “io penso che sia meglio vendere un gran numero di articoli con un piccolo guadagno, piuttosto che venderne pochi con grande guadagno”.
I due personaggi erano accomunati dalla illusione e dalla pretesa di vedersela direttamente con i lavoratori, senza la mediazione del sindacato.
Nel 1924 Ford arrivò ad assicurare ai suoi 125.000 dipendenti una serie di agevolazioni quali: buoni-spese, scuole, giornale aziendale, ospedali, e polizia privata (Pinkerton).
La convivenza di Taylorismo e Fordismo oltre alla scoperta che la produzione di massa era resa possibile dagli alti volumi di produzione assicurati dal consumo di massa portò alla supremazia degli U.S.A. come patria del capitalismo. Mentre nell’800 la Gran Bretagna deteneva questo primato nel 900 lo scettro passo agli Stati Uniti che superarono così la sudditanza verso l’Europa. Gli U.S.A. avevano effettivamente impostato il modo di lavorare su basi nuove, e pertanto competitive.
Mass production  Alla fine degli anni 20 questo termine divenne di uso corrente. Lo si impiega descrivendo i vantaggi e gli svantaggi di un tale modo di lavorare e produrre. Secondo alcuni studiosi gli effetti BUONI sono: maggior durata e miglior tenore di vita, livellamento sociale, attenuazione della fatica, riduzione delle ore di lavoro, espansione dell’ego, declino della superstizione.
Effetti CATTIVI: monotonia del lavoro meccanico, maggiori rischi di infortuni, disoccupazione tecnologica, spinta al consumo, congestione urbana, rumori, sfruttamento delle risorse naturali.
Effetti BUONI & CATTIVI: la vita corre più svelta, la popolazione cresce ed emigra, i giovani operai guadagnano come quelli adulti, la qualità di certi beni aumenta e di altri diminuisce, le condizioni di fabbrica sono diventate più tollerabili.
Con gli anni 20 la produzione di massa rese gli stati uniti forti e rispettati. Con la prima guerra mondiale era stato prodotto un volume talmente alto di esemplari di ogni cosa da colpire l’immaginario collettivo. Gli U.S.A. erano arrivati a togliere alla gran Bretagna il primato di grande potenza perché dagli anni 20 la produzione di massa aveva dominato il mercato, stavolta con i consumi privati e non più con la spesa militare. Quel rigoglioso sviluppo pacifico deve molto ad una delle innovazioni meno celebrate: la pubblicità.

 

Fonte:  http://www.laurea-tsrm.unige.it/senior0405/Sociologia/Soc_proc_econ_lav_tutte_le_lezioni.doc
Appunti realizzati  dall’autore sulla base dei seguenti testi:
Sociologia Economica di Martinelli e Smelser – Il mondo della produzione di  A. Accornero
Autore: Prof. Leonardini Piero

 

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